A ogni modo, il lavoro originale interrotto nel 1970, quando divenni titolare di cattedra, non fu mai ripreso, tranne che nei lavori dell’ISD che trattavano piuttosto l’influenza che la precognizione.
Dopo una lunga assenza, ho pensato utile ritracciare la genesi che mi ha condotto a produrre un corpus eccezionalmente complesso con più di 300 definizioni e asserzioni, tutte in relazione fra loro in uno schema coerente. Capite bene anche la ragione che mi ha spinto ad abbandonare ciò che mi era più caro: contribuire a far avanzare la scienza in questo settore. Ma sopravvalutavo allora le capacità dei parapsicologi, sterili per ciò che riguarda le prove e ancor più per le scoperte sensazionali.
Ho cominciato a interessarmi ai fenomeni “psi” mentre studiavo ingegneria, pensando che se si fosse posto come assioma che essi corrispondessero alla realtà, allora tutta la nostra visione del mondo ne sarebbe stata sconvolta. Era urgente indagare le conseguenze del fattore “psi” sui nostri postulati behavioristi all’epoca predominanti. In altre parole, bisognava includere nel corpus dei fatti psicologici anche i fatti parapsicologici accordando loro uno statuto di realtà – almeno per i più convincenti come la telepatia e la precognizione – come per tutti gli altri fenomeni studiati dai laboratori scientifici.
Posi allora come principio pragmatico e rivedibile, l’assioma che molti grandi ricercatori, da Freud e Jung a Murphy o Soal, e dei seri laboratori che usavano protocolli scientifici sempre più rigorosi, non potessero sbagliarsi tutti ingannando per decenni tutta la comunità scientifica. Tale assioma sembrava ancora più convincente, visto che le critiche dirette ai ricercatori erano più intenzionate a disinformare il pubblico che a informarlo, con l’obiettivo più o meno velato di scoraggiare le ricerche e discreditare coloro che le conducevano.
Non ho voluto pronunciarmi sul fondo stesso delle ricerche. Una sola certezza mi animava: la posta in gioco, sia teorica che pratica della parapsicologia, esigeva lo stanziamento di fondi cospicui al fine di esplorarne le possibilità d’occorrenza e la maniera di causare eventi macroscopici piuttosto che rifiutarli a priori col pretesto che gli istituti seri non devono fare ricerche sulla parapsicologia!
Non potendo influenzare gli accademici, sono partito da una revisione radicale, una sorta d’inventario concettuale del nostro sistema mentale, sempre a partire dall’assioma che include l’evento parapsicologico, in particolare due caratteristiche essenziali:
1) La non-separabilità di certe immagini mentali che si trovano qui e agli antipodi simultaneamente (telepatia).
2) La possibilità dell’informazione di percorrere a ritroso la freccia del tempo (precognizione). Si veda in particolare il paradosso di Dunne. Ciò mi ha portato alla conclusione che siccome la psicologia classica non poteva rendere conto di questi due elementi, bisognasse semplicemente cambiarla per adattarla alla parapsicologia.
Seguendo il filo del ragionamento, si arrivava all’inferenza necessaria che il nostro sistema psicologico racchiudesse delle informazioni che potevano viaggiare all’indietro o in avanti rispetto alla linea dell’universo, secondo una quinta dimensione, e che tali informazioni potessero trovarsi “qui e là”, invalidando (validando?) l’assioma di separabilità. Il risultato era che il conscio e il suo substrato comprendessero delle particelle portatrici d’informazione, sprovviste di materia, di energia, e “piatte” nel tempo theta o dimensione 5.
Rimaneva da chiedersi come un mondo senza materia né energia né linea d’universo, potesse comunicare con un mondo fisico materiale. Sono dunque andato a trovare Piaget a Ginevra e Charles Osgood a Urbana per discutere a lungo con loro. Piaget mi aprì il suo immenso trattato di psicologia sperimentale, scritto con Paul Fraisse, autore di una psicologia del tempo. Questo paradosso lo intrigava profondamente e né la tesi parallelista (che implica un fenomeno di risonanza misteriosa fra i due mondi) né la tesi interazionista (esiste un mediatore materiale e immateriale al tempo stesso) non lo soddisfacevano. E neppure me. Per sfortuna, in questo periodo, la tesi dei tre mondi di Popper non era molto diffusa, soprattutto fra gli psicologi, e i lavori di Sir John Eccles, che davano una risposta, erano molto confidenziali.
Me la sono cavata con un’astuzia linguistica, postulando l’esistenza di equivalenti psichici ai processi biologici, che chiamai “rappresentazioni”. Il conscio diventava un “campo di rappresentazione, R” sprovvisto di massa e di energia. Si dà il caso che il concetto di energia sia fondamentale in psicologia, che lo si chiami neurino, drive, libido, cathexis, energia psicologica etc. Mi sbarazzai di tutto ciò e inventai un neologismo col concetto associato: l’ergia. Contrariamente ai concetti in vigore che si riferiscono tutti a un’energia materiale, l’ergia era definita in modo del tutto diverso, a partire da una dinamica non materiale delle rappresentazioni. La chiave di volta era la nozione di conocorrenza fra rappresentazioni per assicurarsi il passaggio il passaggio nel campo R (cioè l’affioramento nella coscienza) o perfino la presa di controllo totale (ossessioni).
Tirando le mie conclusioni, pervenni a uno stadio abbastanza avanzato per proporre dei protocolli sperimentali. Ma fui scoraggiato dallo stesso Piaget: sono degli abbrutiti, non c’è da ricavarne nulla, mi dia retta, il più grande psicologo del XX secolo, David Rapoport, non riesce nemmeno a farsi pubblicare. Non ammetteranno mai la tesi della specificità del conscio. Anch’io ci ho rinunciato. Osgood mi fece lo stesso discorso. Il behaviorismo trionfante l’aveva costretto a codificare la sua teoria della differenziazione semantica con tonnellate di circonvoluzioni. Si era rassegnato con amarezza. Con l’entusiasmo e la mia sfrontatezza giovanile, chiesi al professor Simondon (mi pare che si chiamasse così), raccomandatomi da Piaget in persona come meno fanatico di Fraisse, di aiutarmi a realizzare i protocolli sperimentali. Quell’uomo affascinante mi ascoltò con attenzione, mi fece i complimenti e m’incaricò di studiare... il comportamento delle amebe.
Mi restava soltanto una via ufficiale: la mia cattedra di Teorie dell’informazione. Essendo il titolare di questa cattedra di Stato, avevo il diritto di scrivere ciò che mi pareva a condizione di poter dimostrare che ci fosse un collegamento con la mia specialità. Mi fu sufficiente nominare i fenomeni telepatici come “dinamica delle informazioni avanzate” per far passare il messaggio, a Wharton compreso. Intanto, i lavori di Eccles erano stati pubblicati, mentre Arthur Koestler e Popper diffusero meglio di me la nozione di specificità del conscio, e comunque... perfino questi grandi illustri non ottennero ascolto, un Rupert Sheldrake fu scomunicato, Jung e Freud sconfessati... Avevo di meglio da fare che lottare controcorrente. L’informatica era appena nata trasformando la nostra visione dei sistemi a vasta scala e io mi dirigevo verso un settore senz’altro più vantaggioso sotto tutti gli aspetti.
Soltanto adesso, misurando la stagnazione dei concetti dall’epoca della mia gioventù tumultuosa, l’accanimento terapeutico di chi vuole convincere a tutti i costi gente che non lo vuole, e il perfezionamento crescente degli strumenti sperimentali, mi sono detto che sarebbe forse utile riprendere questi elementi per una teoria e diffonderli poco a poco in questi masterclasses molto particolari. La prossima sarà consacrata alla chiave di volta dell’insieme, la nozione di campo di rappresentazione R (specificità del conscio), della statica delle rappresentazioni (struttura delle organizzazioni semantiche) e della dinamica delle rappresentazioni (nozione di “ergia”).
(traduzione di Renzo Ardiccioni)
SOTTOMISSIONE E DOMINAZIONE (Prof. Bruno Lussato) Introduzione
Il fascino della schiavitù
Se non vado errato, era proprio de Tocqueville a sostenere che non ci sarebbero così tanti tiranni se gli schiavi non ci trovassero il proprio tornaconto. La mia esperienza nel mondo delle imprese mi ha dimostrato che i dirigenti stessi, nonostante le loro rivendicazioni per una maggiore autonomia e decentralizzazione, respingessero infine una libertà che implica sempre responsabilità e rischi di sanzioni. La centralizzazione ha questo di buono: a patto che il subordinato obbedisca servilmente agli ordini del suo superiore, sarà relativamente tranquillo. Ciò è ancora più vero nelle megaimprese pubbliche e nelle ammistrazioni burocratiche, laddove il cervello destro è esente da ogni giudizio di valore e il cervello sinistro assolve con regolarità i propri impegni formali. (cf. la teoria bicamerale di Jaynes, in Virus).
Il best-seller di Jonathan Littel, Les Bienveillantes, descrive molto bene questo stato d’animo denunciato da Hannah Arendt e confermato sperimentalmente dalle esperienze di Milgram. Si constata che quando l’essere umano è “sdoganato” dall’autorità e dispensato da ogni giudizio di valore, allora diventa più spietato di un robot terminator. Bisogna tuttavia tenere conto del fatto che non tutte le culture hanno questa propensione al servilismo, ma possono rifiutarlo oltre una certa soglia di barbarie. Littel osserva giustamente che se la Germania e la Francia si distinsero per una sottomissione consapevole all’orrore, i danesi e gli italiani si rivoltarono e rifiutarono le direttive imposte dai nazisti, causando un’estrema irritazione di questi ultimi.
La dialettica sottomissione-dominazione si trova allo stato puro nel rapporto fra padrone e schiavo, attivo e passivo, signore e vassallo. Se ne trova anche un esempio nella “dhimmitude”, quello stato di sottomissione imposto dai musulmani rispettosi del Corano verso gli infedeli che devono pagare con tributi e marchi di subordinazione il privilegio di essere tollerati.
Il fattore “K” e la sindrome di Stoccolma “Bisogna aiutare i propri alleati e combattere i propri avversari”, diceva Luigi XIV. Ciò che sembrerebbe una verità lapalissiana non si concilia con la tendenza apparsa verso la metà del secolo scorso alla sottomissione o addirittura al tradimento lecito. Il nuovo paradigma potrebbe enunciarsi così: “Bisogna aiutare i propri avversari e combattere i propri alleati” che si declina in un numero infinito di posture politicamente corrette. “Bisogna nutrire il cocodrillo per addomesticarlo”. Bisogna tollerare la trave dei nostri peggiori nemici ma, scrupolosi nella discriminazione positiva, denunciare invece la pagliuzza nel nostro campo e in quello dei nostri amici.
La tipica manifestazione del suddetto fenomeno è conosciuta col nome di « sindrome di Stoccolma », descrivendo il comportamento di vittime di un rapimento, che presero le difese dei loro rapitori contro le forze dell’ordine venute a liberarli. Tale sindrome si manifesta nei casi estremi in cui le vittime indifese vengono rinchiuse per un po’ di tempo in un luogo isolato, con dei carnefici pronti a ucciderle per il proprio sadico piacere giocando al gatto e al topo.
Françoise Sironi a descritto nel suo magistrale libro sulla tortura, un processo simile alla sindrome di Stoccolma. La vittima finisce per sposare la causa del suo carnefice, rinnegando il proprio campo e i propri valori. Anche in questo caso si profila lo stesso paradigma: isolamento, rapporto di forza schiacciante fra preda e predatore, alternanza fra sofferenze e gratificazioni, fra bastone e carota.
Il punto d’arrivo di tale processo è ciò che chiamiamo la sindrome di Stoccolma anterograda (SSA). Il sottomesso in potenza finge di trovarsi nella situazione del rapito o della vittima di un torturatore. Egli s’immagina in un ghetto, preso in trappola, senza alcuna via d’uscita se non quella di sottomettersi al carnefice onnipotente. Lo slogan “Meglio rossi che morti” che imperversò in Germania durante la guerra fredda, spingeva i giovani intellettuali tedeschi a cedere ai comunisti sovietici per paura di una terza guerra mondiale. La SSA spinge la vittima potenziale (che può essere una comunità, una cultura, una nazione), a militare in favore del proprio nemico, sperando di evitare uno scontro e scoraggiando ogni resistenza del tipo “né rossi, né morti”.
Virus, otto lezioni sulla disinformazione (purtroppo non ancora tradotto in Italia, ndt) nell’ultimo capitolo “Trappole” dimostra come le vittime della SSA disinformano con successo l’opinione pubblica delle democrazie occidentali conducendola a sottoscrivere il loro proprio annientamento. Mette in evidenza un “fattore K” o captazione, che si ritrova nel regno vegetale e animale così come in alcuni racconti, leggende e miti dell’antica Grecia. In questa categoria, daremo qualche esempio che arricchiranno la tesi sostenuta in “Trappole”. S’invita il lettore ad arricchire con le proprie esperienze questo paradigma fortemente astratto e non validato. Si tratta per ora soltanto di una pista in cui ogni miglioramento e critica costruttiva saranno sempre benvenuti.
(traduzione di Renzo Ardiccioni)
Masterclass 11 (Professor Bruno Lussato)
Gli assiomi di base della Teoria dell’Informazione Psicologica (TIP). NOTA : Il testo originale della TIP (Teoria dell’Informazione Psicologica) poi intitolato : elementi per una Teoria... è stato ritrascritto in nero. Invece i commenti e le modifiche effettuate dopo il 1970 sono in marrone.
Il termine d’Informazione psicologica lascia intendere che si distingue un’informazione fisica, biologica, etc. dall’informazione mentale. Tutto ciò è conforme alle teoria dei tre mondi di Popper, laddove l’elemento comune che li riunisce è proprio l’informazione.
L’ASSIOMA DI BASE : L’esistenza dei fenomeni di coscienza. Sono cosciente (aware) di oggetti che mi circondano e che sono presenti in ciò che posso chiamare coscienza. Può trattarsi di un dolore, una visione, un suono, una vaga sensazione cenestetica. Anche durante il sonno possono presentarsi delle immagini, conversazioni, idee, sebbene non se ne prenda atto che la mattina al risveglio quando riusciamo a situarle comme apparse durante il sonno. Ciò comporta una caratteristica della coscienza: essa si situa “qui e ora” poiché non ho nessuna garanzia che ciò di cui credo ricordarmi sia realmente avvenuto, laddove in questo momento preciso posso soltanto affermare che nella mia coscienza coesistano un oggetto (immagine, idea, visione, audizione, parole pronunciate) e un luogo che li faccia situare in una gerarchia temporale da me stabilita, più o meno artificialmente, e che mi permette di classificare gli oggetti coscienti.
Définizioni Non è facile designare tali oggetti presenti nella mia coscienza : idee, immagini, sensazioni, rumori e parole, sentimenti ed emozioni... Li chiamerò rappresentazioni (r1, r2, r n).
Tali rappresentazioni non hanno una composizione e un contorno ben definiti. Esse presentano tuttavia una certa coerenza derivata dagli elementi costitutivi o psichemi che sono in qualche maniera agglutinati o aggregati, da una sorta dei tendenza centripeta, a formare le rappresentazioni. Per esempio, se penso a una sedia, i piedi e la spalliera sono assemblati insieme. Se vengono a mancare, la rappresentazione si disgrega.
D’altra parte, l’instabilità regna nel mucchio formato dalle rappresentazioni. Non soltanto si trova in continua mutazione, ma basta un osservatore perché avvengano modificazioni.
Chiamerò campo di rappresentazione R, l’insieme delle rappresentazioni e degli psichemi che le compongono nell’istante t. Chiamo “istante” uno stato dato a un momento preciso del campo di rappresentazione R. Se subisce una benché minima modificazione, un nuovo R, associato a un istante t+1, gli succederà. La successione degli istanti dà un’impressione di movimento, come quella che appare quando si fanno sfilare 32 immagini al secondo nella proiezione di un film.
DISCUSSIONE.
Si potrebbe prendere tale assioma per un postulato, visto che l’ho formulato come un’evidenza non analizzata. Ma un gran numero di scienziati dell’epoca behaviorista nonché i seguaci di Pavlov hanno affermato l’assioma contrario: la coscienza non esiste, non è che... un’emanazione dei nostri processi ormonali (Changeux) o neurologici (Pavlov, Negroponte), oppure un’entità non accettabile scientificamente poiché non riproducibile, non misurabile, non oggettivabile (behavioristi). L’introspezione, o approccio in prima persona, non è ammissibile perché essenzialmente soggettiva e non indagabile in laboratorio. Aggiungiamo che i riflessologi sovietici avevano postulato che la coscienza era il prodotto del capitalismo borghese.
Si dà il caso tutti questi punti di vista non reggano a un’insolubile contraddizione interna, rilevata da Pauli e Niels Bohr.
IL PARADOSSO DI NIELS BOHR.
Gli strumenti di misura producono informazioni che in fin dei conti posso conoscere solo in quanto cosciente. Ma se nego l’esistenza oppure la validità della mia percezione, ciò significa che, se non sono capace di lavorare dormendo o in stato comatoso, tutto deve per forza passare dalla mia coscienza.
Per riprendere la nostra terminologia, posso soltanto conoscere e manipolare il mondo “oggettivo” esterno attraverso lo schermo della mia coscienza. Non soltanto il campo R non è un epifenomeno secreto dal cervello come il fegato secerne la bile, ma è esattamente il contrario che si verifica: il mondo “oggettivo” esterno è inferito dall’insieme delle nostre rappresentazioni. Ciò non significa che non esiste ma che posso conoscerlo solamente come sistema di rappresentazioni.
DISCUSSIONE.
Non soltanto è falso affermare che il cervello è il territorio e che il campo R è la mappa tracciata dei meccanismi neuronali, ma è proprio il contrario che si verifica: il campo R è il territorio, ovvero l’unica percezione diretta che abbiamo della realtà, mentre il cervello è solo una parte della mappa di quella realtà dedotta a partire dalla nostra esperienza sensibile.
Nel prossimo masterclass dimostreremo, grazie all’assioma di Bohr che non soltanto la coscienza è il territorio e il mondo esterno la mappa dedotta da R, ma pure che le proprietà di R sono totalmente incompatibili con la realtà biologica esplorata dalle neuroscienze e con la realtà fisica. Si può dunque affermare che siamo vivi soltanto perché abbiamo un campo R. Se si considera il contenuto di R come ciò che io sono, il fatto di esserne coscienti (coscienza riflessiva) è ugualmente una parte di R. Sono dunque non perché penso, come sosteneva Cartesio, ma perché sono. Quando sogno non penso molto spesso, ma comunque sono.
Masterclass 12 Teoria dell’informazione psicologica (TIP)
Assiomi di partenza e prime definizioni
Specificità della coscienza. Il dilemma psicologico (segue) Se estendiamo il ragionamento di Niels Bohr relativo all’inesistenza della nozione di presente nelle teorie scientifiche, la sensazione di presente essendo un prodotto della nostra coscienza, si arriva a una visione choc per alcuni e improbabile per altri. Ma rifiutarla ci obbligherebbe ad ammettere l’impossibile (cf. quando si scarta l’impossibile, l’improbabile diventa verità).
Ci basta allo stato attuale delle nostre conoscenze, di ammettere che il nostro campo di rappresentazione R, sia in qualche modo piatto (cioè a tre dimensioni invece di quattro) nell’iperspazio a quattro dimensioni: lunghezza, larghezza, altezza, linea dell’universo. Non c’è nessuno spessore temporale, al contrario del mondo materiale in cui è immerso, in particolare del cervello.
Quest’ultimo si dispiega in atto nelle quattro dimensioni e « non sa » più degli altri oggetti inanimati ciò che è il presente. R è quindi parte di un “iperpiano” indubbiamente in comune con gli esseri umani e forse con il mondo vivente come lo percepiamo, un iperpiano a tre dimensioni che percorre la linea d’universo secondo una traslazione praticamente irreversibile (cf. l’immagine della salsiccia relativista e del treno della vita). Lungo questa traversata, la traccia degli avvenimenti si accumula bene sia nella nostra corteccia cerebrale (memoria biologica) sia nell’universo intero (come gli anelli concentrici che ammiriamo nelle sezioni degli alberi millenari).
Ciò che chiamiamo « passato », non è altro che la ricezione di stati attuali (all’incrocio fra l’iperpiano e l’ipervolume della corteccia) e non ha nulla a che vedere con una reale incursione in un passato che ci sfugge. I sistemisti c’insegnano che il tempo è una successione di stati e che non si può accedere alla storia del sistema se non attraverso lo stato più recente.
Lo spessore temporale del presente Tuttavia, ciò che chiamiamo « presente » stranamente non è sprovvisto di uno spessore temporale u. Paul Fraisse in Psicologia del tempo già affermava che l’istante (situazione di R in cui nessun elemento si muove) dura da un trentaseiesimo di secondo (stato ipnagogico) fino a 16 secondi (meditazione zen, in cui il tempo sembra sospeso). È il passaggio da uno stato all’altro che dà l’impressione del movimento, come un film composto da immagini fisse che sfilano a grande velocità. Le immagini sono qui, i campi di rappresentazione R sono in sequenza a senso unico: traslazione lungo la linea dell’universo, dal passato al futuro.
I riduzionisti assimilano la mente al cervello, la sua sede è nella corteccia e non è altro che un epifenomeno, in verità ingombrante, del meccanismo ormonale che regola secondo loro il nostro pensiero. Penso dunque sono, si potrebbe tradurre con: il mio cervello secerne ormoni, dunque sono. In modo più raffinato, si potrebbe pretendere che la mente sia una mappa di cui il substrato neurologico è il territorio. Nella migliore delle ipotesi ci sarebbe secondo loro isomorfismo fra mente e corteccia oppure, male che vada, identità.
Peccato che tale punto di vista dei behavioristi, e di tutti coloro che concepiscono soltanto l’essere umano neuronali, sia contraddetto dall’approccio in prima persona e dal paragone fra i processi corticali e gli stati della coscienza. Cerchiamo di spiegarci meglio.
Legittimità dell’esplorazione della coscienza R come oggetto d’indagine. Innanzitutto, si deve respingere con forza la negazione dell’introspezione come oggetto d’indagine scientifica o di conoscenza. Tale posizione, che ci ricorda quel vecchio adagio di Lord Kelvin “esiste soltanto una scienza di ciò che è misurabile”, si è in seguito trasformata in “esiste soltanto una scienza di ciò che è previsibile”, per poi diventare “esiste soltanto una scienza di ciò che è riproducibile in laboratorio”.
Questa asserzione è completamente falsa da un punto di vista epistemologico e anche secondo il più elementare buon senso. In effetti, ragionando per assurdo, se la testimonianza di R dev’essere rifiutata, allora bisognerebbe cestinare tutti i protocolli d’esperienza e tutte le misure che non possono aver senso all’infuori di R.
Rovesciando la proposizione, posso affermare soltanto una cosa: sono cosciente (cioè ho un campo R) dunque sono, essendo la formula di Cartesio “penso, dunque sono” troppo restrittiva. Il pensiero è un processo complesso che opera calcoli, paragoni, giudizi, in una parola tutta l’attività mentale del soggetto. Ma il paziente che soffre sotto il trapano del dentista non pensa! Soffre! E non è per questo che smette di esistere. Una sola rappresentazione, un solo psichema, presente nella nostra coscienza: basta perché io possa esistere, anche se non ne ho coscienza.
All’infuori dell’introspezione (* termine inadatto poiché denota un’attività, ma qui sta a indicare l’osservazione volontaria o spontanea dei nostri stati di coscienza R) non c’è nessun altro modo di conoscenza. Siamo condannati a passare da qui. Dico condannati, perché conosco il mondo esterno, compresa la coscienza dei miei interlocutori, soltanto tramite inferenze. La proiezione dell’esterno in R, che noi chiamiamo percezione del reale, dipende dagli arnesi, dal loro maneggio e il linguaggio è uno di questi arnesi. Si può quindi pretendere, parafrasando Bernard d’Espagnat, che l’introspezione ci dà un’informazione forte, non negoziabile, e distinta dalla conoscenza cosiddetta obiettiva che dipende dagli strumenti e dai codici. È un’informazione affidabile.
Il rifiuto della coscienza, perché? Da dove deriva allora questo rifiuto della testimonianza della coscienza ? Questo rifiuto a prendere in considerazione l’esame di R? Il fatto è che sfortunatamente noi non possiamo trasmettere il contenuto di R e nemmeno descriverlo. Basta solo delinearlo per modificarlo, e del resto lo stesso linguaggio ammesso da una comunità non ci dà nessuna garanzia sul contenuto di R. Provate soltanto a indovinare la percezione visiva di un papavero o di un fiordaliso da parte di un daltonico.
Una teorizzazione su questa impossibilità a formalizzare e trasmettere il contenuto di R, deve far ricorso alla nozione di “qualia” (in opposizione ai “quanta”). Un semplice esempio permetterà d’illustrare sia i qualia che la differenza irriducibile fra il territorio R e la mappa PHI (fisiologico). Oppure, secondo la prospettiva neuroscientifica, fra il territorio PHI e la mappa R.
I qualia.
Facciamo la seguente domanda a qualche mente libera: « cercate di ordinare secondo una sequenza crescente la nota la3 emessa da un diapason, la nota do4 più acuta, un colore verde smeraldo, un giallo zafferano e un rosso fuoco ». Potete scommetterci che classificheranno in modo arbitrario questi suoni e colori. Ma la risposta esiste, è la sequenza delle onde emesse secondo l’ordine: la3, do4, rosso fuoco, giallo zafferano, verde smeraldo. Per essere più precisi, si potrebbe dire che esiste una corrispondenza fra la coppia la3-do4 e la coppia rosso fuoco-giallo zafferano.
Tali rapporti di frequenza sono dei codici che si trovano non solo nello spazio che veicola suoni e luci, ma nel treno d’onde emesse dai neuroni. Andando oltre, si può pretendere che la mappa neuronale sia di natura formalizzata, uniforme, strutturata, che tira in ballo entità misurabili e comparabili. Al contrario, tale struttura non esiste in R, e anche quando si enumerano cifre come 1, 2, 3, 4, 7, 13 sono dei numeri per l’ambiente esterno, ma delle “qualità” per l’approccio diretto dell’introspezione. Certo, mi hanno insegnato che 3 più 4 fa 7, ma si tratta di un’asserzione sovrapposta, che non impediscono per nulla a un 3 e un 4 di avere un “colore” diverso. Ciò che chiamiamo “qualia”.
Come fabbricare un robot vivente e pensante?
In definitiva, si vede che differenze irriducibili separano R dal substrato fisico e neuronale. Si potrà fabbricare un robot pensante quando si saprà come fabbricare delle rappresentazioni piatte nel tempo u e dei qualia. Siamo ancora molto lontani. Sono osservazioni di questo genere che che hanno condotto uno dei più grandi epistemologi del secolo scorso, Sir Karl Popper, ad affermare la separazione ontologica fra mondo materiale, da lui chiamato primo mondo, e mondo mentale, da lui chiamato secondo mondo. Si basava anche sul fatto che nel mondo mentale (quindi in R) non si possono mettere in evidenza grandezze materiali (dimensioni, tempo, struttura, massa, energia), in un certo qual modo R è paranormale. Voler ridurre il secondo mondo a un riflesso del primo è un’assurdità scientifica e un altrettanto inammissibile errore di giudizio.
Finora abbiamo definito R soltanto con delle caratteristiche negative. Si potrebbe avere la tentazione di lasciar perdere tutto poiché nessuna osservazione valida, stabile e riproducibile può essere formulata nella galassia in movimento perpetuo della nostra coscienza. Nel prossimo Masterclass, dimostrerò che non è affatto così e che dal vuoto epistemologico si possono formulare delle belle osservazioni, facendo nascere una costruzione teorica.
(traduzione di Renzo Ardiccioni)